MIRANDA SHAW
Illuminazione Appassionata
Venexia editrice, Roma, 2010, 300 pg, 25 euro
Traduzione di Valeria Trisoglio

Al cuore del Tantra stanno “le numinose camminatrici del cielo”, riflesso radioso delle prime maestre che, unendo “cuore puro, mente chiara e desiderio sessuale”, insegnano a donne e uomini la via dell’Illuminazione Appassionata.

Sulle tracce delle Danzatrici del Cielo



Leggendo un testo tantrico o entrando in un tempio del tantra, ci si imbatte immediatamente in un sorprendente assortimento di immagini femminili eccezionali, scoprendo un pantheon di Buddha femminili e una miriade di donne che guidano all’illuminazione, note come dākinī. Libere dall’impedimento delle vesti, con un balzo le dākinī spiccano il volo, con le fluenti chiome che ne incorniciano i corpi inarcati in sinuose pose di danza. I loro occhi risplendono di passione, estasi e intensità feroce ed è quasi possibile udire il leggero ticchettio dei loro intricati ornamenti d’osso, o sentire l’aria smossa dalle loro stole fluttuanti color arcobaleno, mentre si librano nel paesaggio del buddhismo tantrico. Queste indomite fanciulle mostrano di godere di ogni forma di libertà, tema che nella letteratura tantrica si esprime anche attraverso le descrizioni di yogini dotate di poteri magici, di potenti incantatrici capaci di mutare forma a loro piacimento, nonché di donne illuminate in grado di provocare un’esperienza diretta della realtà con un gesto o una parola indirizzati con precisione.
Queste figure femminili, con l’esuberanza del loro atteggiamento passionale e libero, trasmettono un senso di profonda maestria e potere spirituale. Sono state loro a ispirare il mio iniziale interesse nei confronti della tradizione tantrica e a guidare i miei passi dall’inizio alla fine. Ero infatti convinta che le yogini, che con la loro grazia permeano la letteratura tantrica e guardano in modo tanto irresistibile dai dipinti e dalle sculture di questa tradizione, potessero fornire una testimonianza della presenza delle donne nel buddhismo tantrico – della loro esistenza storica, liberazione spirituale e concezione religiosa. Il presente volume costituisce il frutto della mia ricerca sulle donne che hanno ispirato e contribuito alla creazione di queste suggestive immagini femminili.
Gli interpreti dell’arte e della letteratura tantriche sostengono in genere che simili immagini femminili positive non riflettono la vita reale delle donne o i loro talenti, al contrario affermano che il buddhismo tantrico fosse un movimento oppressivo in cui le donne, nel migliore dei casi, occupavano posizioni subordinate e marginali, mentre nel peggiore venivano umiliate e abusate. Il punto di vista prevalente afferma dunque che le controparti umane delle esuberanti yogini dell’iconografia tantrica non fossero che prostitute sottomesse o donne di bassa casta sfruttate a scopo rituale. Tale opinione non dovrebbe sorprendere, dal momento che affermazioni atte a screditare la vita religiosa femminile si riscontrano in ogni campo d’indagine storica in cui non siano ancora state condotte ricerche di rilievo sulle donne. Dichiarazioni simili, ad esempio, sono state avanzate circa le umili condizioni della donna nella cristianità europea medioevale, prima che l’iniziale rivolo d’interesse storico, risalente ad alcune decine di anni fa, si tramutasse nell’attuale fiume in piena di studi sempre più specializzati e metodologicamente sofisticati. Giudizi analoghi sono stati espressi anche riguardo le aborigene australiane, prima che il lavoro delle etnografe portasse alla luce la grande ricchezza di miti e rituali femminili da cui gli uomini, ricercatori inclusi, sono esclusi. Per questo le superficiali presupposizioni circa la marginalità delle donne nei circoli tantrici, spesso riportate incidentalmente, non evidenziano che la necessità di maggiori ricerche e non devono scoraggiare un’indagine più approfondita.
Questo saggio sfida l’opinione prevalente sul ruolo della donna nel buddhismo tantrico fornendo nuove prove storiche e testuali, nonché reinterpretando i temi e le dottrine fondamentali sulla base di una documentazione che fornisce abbondanti prove del fatto che le donne abbiano partecipato pienamente all’emergente movimento del tantra. Le biografie tantriche ritraggono donne coraggiose, schiette e indipendenti, i testi tantrici prescrivono i modi in cui la donna deve essere rispettata, servita e ritualmente adorata, la letteratura tantrica, infine, presenta pratiche compiute esclusivamente da donne, accanto ad altre eseguite da donne e uomini insieme: la teoria del tantra infatti promuove un ideale di cooperazione, incentrato su relazioni reciprocamente liberatorie tra donne e uomini. Sicché, ogni volta che le categorie interpretative precedentemente applicate alle pratiche, alle dottrine, ai rapporti tra i generi e ai gruppi sociali qui esaminati si sono rivelate inadeguate, sono state sottoposte a un’indagine critica e quindi modificate o abbandonate per consentire lo sviluppo della mia analisi.

La costante differenza tra le affermazioni degli indiani e degli occidentali sulle tantriste è altamente indicativa. Diversi presupposti teorici hanno infatti dato origine a una lente, o prisma, che distorce le immagini in modo prevedibile, tanto che questa distorsione è oggi riconoscibile come tipica delle reazioni coloniali a quegli aspetti della cultura indiana ritenuti incomprensibili, ripugnanti o irriducibilmente alieni. Il giudizio sdegnoso sulle praticanti del tantrismo, ad esempio, ricorda la valutazione colonialista delle devadāsī indiane come “prostitute del tempio”. Queste donne, che sono in realtà artiste e studiose incaricate di eseguire danze rituali e altre attività di culto, apparivano come figure inusuali e apparentemente inquietanti allo sguardo coloniale. Dal momento che tanto i dipendenti pubblici dell’impero Britannico, quanto i missionari non erano in grado di comprendere le funzioni religiose svolte nei templi da queste fedeli, le etichettarono come “sgualdrine” e “prostitute” e procedettero a sancire l’illegalità della tradizione devadāsī. Tali giudizi non riflettevano soltanto una mancanza di conoscenza delle genti colonizzate, ma anche una profonda avversione per alcuni dei loro valori culturali. 1
Questa valutazione ha prevalso fino a tempi relativamente recenti, quando un’antropologa che stava studiando le vite delle ultime devadāsī rimaste a Puri, nello stato costiero dell’Orissa, non scoprì una tradizione di danzatrici rituali istruite, venerate ed economicamente indipendenti, i cui servizi di culto erano fondamentali per assicurare la buona gestione di un regno indiano. In quanto incarnazioni della divinità e del potere femminili, le danzatrici ricevevano ricchi doni per le loro attività e i devoti bramavano persino la polvere che cadeva dai loro piedi. 2
La critica allo sguardo coloniale in India ha messo in evidenza come le visioni dei colonizzatori e dei colonizzati contrastassero violentemente riguardo i tratti ritenuti caratterizzanti della mascolinità e della femminilità. La visione indiana infatti non rispecchia i valori occidentali, ma comprende un rispetto e una venerazione profondi della potenza magica e dei poteri divini intrinseci alla condizione di donna. 3
Questa venerazione risulta accentuata negli ambiti sovrapposti dello śaktismo e del tantrismo di cui facevano parte le devadāsī e le donne del buddhismo tantrico. Probabilmente la descrizione delle yogini del buddhismo tantrico come “sgualdrine”, “prostitute” e “corrotte e depravate” tradisce un residuo di indignazione vittoriana non solo nei confronti dell’attività sessuale delle donne nubili, ma anche verso l’adorazione e l’esaltazione religiosa della donna. Il teologo Hans Küng riconosce come la riverenza religiosa verso le donne sia così antitetica rispetto ai valori dell’ebraismo e del cristianesimo da costituire uno dei principali ostacoli alla comprensione:

È particolarmente difficile per il teologo cristiano trattare... lo śaktismo tantrico con il suo orientamento verso il potere o la divinità femminili.... Sarebbe impossibile non notare come tutti i sistemi tantrici, e in special modo le pratiche dello śaktismo, siano straordinariamente estranei ai cristiani, più estranei di qualsiasi altra cosa abbiamo incontrato finora nel buddhismo o nell’induismo. 4

In parte, simili orientamenti risultano tanto alieni agli occidentali perché sono espressione di una cultura animata da dualità completamente diverse da quelle con cui il tantra viene interpretato. Dal momento che l’asse attorno a cui ruotano la società e la religione indiane è costituito dai valori contrapposti di purezza e contaminazione e di buono e cattivo auspicio, non c’è coincidenza con le dicotomie prevalenti in Occidente quali natura e cultura, materia e spirito, umano e divino. L’associazione delle donne con i poli di “natura”, “materia” e “umanità” – soprattutto in quanto elementi disprezzati di queste coppie di opposti – risulta quindi in questo caso del tutto inappropriata.
L’interpretazione delle pratiche religiose delle donne nel buddhismo tantrico richiede una loro corretta collocazione nella sfera dei significati culturali loro propria, piuttosto che un riposizionamento in linea con le concezioni di genere, sessualità e potere di chi effettua l’analisi. Herbert Guenther attribuisce lo schema interpretativo appena citato alla “psicologia del dominio occidentale” che conduce a quella che lui definisce “la concezione occidentale paranoide del tantrismo”, ovvero la proiezione delle ansie del “paranoico che è ossessionato dalla propria potenza sessuale e si sforza di costringere l’oggetto ad avvicinarsi a lui”. 5
Effettivamente le interpretazioni qui riportate riproducono le specifiche concezioni di genere occidentali, tipicamente androcentriche, in modo tanto semplicistico da risultare quasi imbarazzante: gli uomini sono agenti attivi, le donne vittime passive; gli uomini sono potenti e sfruttatori, le donne prive di potere e sfruttate; la prodezza sessuale maschile è ammirevole, la promiscuità femminile è deplorevole; gli uomini sono definiti in base a criteri intellettuali e spirituali, le donne sono inesorabilmente determinate dalla loro biologia. Questi dualismi hanno un carattere distintivo e un’ascendenza tipicamente europee, che rendono inammissibile una loro attribuzione acritica a tutte le altre culture. Inoltre, simili categorie interpretative presuppongono relazioni tra i sessi antagonistiche e conflittuali e l’inevitabile predominio di un sesso sull’altro in ogni assetto sociale, oscurando ancora una volta le variazioni culturali. 6
Applicando in modo indiscriminato categorie esclusivamente occidentali si finisce col trascurare come sia i tratti distintivi dei generi, che le loro relazioni reciproche, non siano altro che costrutti culturali. Culture diverse hanno delle concezioni di genere, potere, status sociale e progresso religioso molto differenti. Non c’è alcuna uniformità interculturale riguardo le relazioni di genere che consenta di esprimersi in termini globali, astorici e universalizzanti, senza alcun riferimento alle specifiche costruzioni culturali di status e potere. L’antropologa Shelly Errington sostiene l’inadeguatezza dei modelli di genere semplicistici per descrivere la complessità delle relazioni tra i generi riscontrabili a livello mondiale: “Anche nel migliore dei casi nessun concetto o criterio elementare di status inferiore o superiore è in grado di descrivere la condizione sociale e il potere delle donne a livello interculturale. Nel peggiore dei casi, le nostre più radicate idee di senso comune sul ‘potere’, e quindi sullo ‘status’, potrebbero dover essere completamente rovesciate per permetterci di comprendere le relazioni tra uomini e donne in alcune parti del mondo”. 7
Il dominio, lo sfruttamento e il potere sono costrutti culturali altamente sfumati che raramente mostrano una corrispondenza diretta con le categorie di genere (ad esempio: gli uomini detengono il potere e sono sfruttatori, le donne sono prive di potere e sfruttate, ecc.) e raramente sono ascrivibili a singoli individui o classi di individui, risultando piuttosto configurati in complesse matrici di posizioni in costante mutamento.
Oltre all’assegnazione forzata di concezioni occidentali di genere, sessualità e potere, le interpretazioni della donna e del rituale tantrico precedentemente citate impongono anche nozioni ben più fondamentali riguardo il sé e la personalità. Viene infatti postulata una situazione in cui le donne risultano reificate e sfruttate, ancorando questa supposta depersonalizzazione della donna al suo possedere un sé individuale analogo a quello cui generalmente fa riferimento il pensiero occidentale. Nella concezione occidentale il sé è visto come una sostanza racchiusa dal corpo che, pur potendo subire alcuni cambiamenti, conserva comunque una propria identità, rimanendo quindi un’entità circoscritta per tutto il corso della vita. Ciò consente un processo di reificazione o mercificazione che trasforma il “sé” in una “cosa”, un “oggetto”, o una “merce” che possono essere “usati” da un’altra persona come mezzi per raggiungere uno scopo 8 .
Questo sé mercificato risulta in netto contrasto con le concezioni tradizionali indiane e buddhiste della personalità. Inoltre un simile “feticismo delle merci”, o logica merceologica, basato sul presupposto che i corpi delle donne fossero usati come strumento fisico per il raggiungimento di scopi maschili, implica un dualismo cartesiano mente-corpo, una separabilità dello spirito dalla materia, estranei al contesto indiano, caratterizzato da una concezione più dinamica, organica e fluida degli esseri viventi e delle loro orchestralmente ricche interazioni, incluso ogni scambio rituale, sociale e biologico. 9
L’imposizione di categorie occidentali dominanti, come quella di un sé atomistico e sostanzialistico, a un movimento medievale indiano dà necessariamente luogo a un’analisi distorta, nonostante tale distorsione tenda a passare inosservata a causa dell’intuitiva familiarità di tali categorie per gli studiosi occidentali e il loro pubblico. Sebbene sia arduo divenire consapevoli dei principi che strutturano il proprio modo di pensare, per interpretare correttamente il buddhismo tantrico e il ruolo che vi svolgono le donne è necessario far riferimento alle concezioni della femminilità e delle relazioni tra i generi propri della tradizione di cui ci occupiamo.
Dal mio punto di vista, il buddhismo tantrico non propone un modello di sfruttamento, ma di complementarietà e reciprocità. Piuttosto che fornire una giustificazione all’oppressione delle donne o al loro sfruttamento sessuale, i testi tantrici incoraggiano a fare affidamento sulle donne come fonti di potere spirituale, esprimono un senso di stima e rispetto nei loro confronti (come verrà illustrato più dettagliatamente nei prossimi capitoli) e dimostrano un genuino interesse a rintracciare donne religiosamente progredite e spiritualmente potenti e a mostrar loro la giusta deferenza. Gli studiosi occidentali hanno preso questo interesse come dimostrazione del fatto che i metodi tantrici servano esclusivamente alla liberazione maschile e privilegino gli uomini, sfruttando le donne: la mia ricerca propone invece una interpretazione molto diversa.
Nelle letture del movimento tantrico che ho appena citato, le categorie culturali e le ossessioni occidentali sono state universalizzate e applicate al contesto indiano senza verificare se la tradizione tantrica condividesse tali fissazioni, o se non potesse invece offrire una visione radicalmente diversa del possibile instaurarsi di relazioni liberative tra uomini e donne. Non vi è alcuna necessità dimostrabile che motivi il ricorso a una cornice interpretativa etnocentrica di stampo euro-americano, dal momento che la tradizione del buddhismo tantrico si esprime in modo piuttosto eloquente circa le relazioni uomo-donna. Questo libro dimostrerà come il buddhismo tantrico presenti una sua concezione distintiva tanto della femminilità e della mascolinità, quanto della relazione ideale, o spiritualmente trasformativa, che può instaurarsi tra i due. Gli autori dei testi classici degli yoginī-tantra trattano diffusamente questi temi cruciali. 10
Esponenti della tradizione hanno scritto in modo approfondito e puntuale anche a proposito dell’incarnazione che non è concepita come un’“anima” posta in un “corpo”, ma piuttosto come un continuum mente-corpo di corporeità, affettività, conoscenza e spiritualità i cui strati sono sottilmente intrecciati e reciprocamente interagenti. Questa concezione non-essenzialista non vede il sé come entità delimitata o statica, ma come teatro di una moltitudine di energie, venti e fiamme interne, fusioni, dissoluzioni e flussi in grado di apportare drammatiche trasformazioni all’esperienza incarnata e costituire un ponte tra l’umano e il divino. È alla luce di questo modello che vede il sé come dinamico, permeabile e senza confini fissi che il paradigma del buddhismo tantrico deve essere interpretato. Solamente Herbert Guenther, tra gli studiosi occidentali, ha posto la relazione spirituale nel tantra nel contesto della metafisica buddhista e questo volume prosegue sulla stessa linea interpretativa. 11

Note

1. Le antiche sacerdotesse sessualmente attive del Medio Oriente sono state diffamate in modo simile. Secondo le nuove ricerche, invece, coloro che erano votate ai templi nel Medio Oriente, al pari delle devadāsī, erano nubili, avevano figli e gestivano da sole le loro proprietà, spesso considerevoli. Dai loro seguaci erano viste come mediatrici della divinità, come indicato dal loro appellativo (qadesh o qadishtu in accadico, che significa “donna santa” o “sacra donna”), ma appaiono nella letteratura occidentale come “prostitute rituali” o “prostitute del tempio”. I profeti ebrei condannarono pubblicamente queste sacerdotesse e la loro indignazione continua a riecheggiare nei giudizi degli studiosi moderni; si veda Merlin Stone, When God was a Woman, pp. xx, 156-158.

2. La pionieristica opera etnografica sulle devadāsī è di Frédérique Marglin, Wives of the God-King.La sacralità della polvere dei loro piedi e del terreno su cui avevano danzato nell’universo di significati culturali dello śāktismo è analizzata dettagliatamente da Frédérique Marglin, “Refining the Body”, pp. 217-20, 226-28. Per un’analisi dell’effetto delle leggi britanniche sulla tradizione delle devadāsī, si veda Amrit Srinivasan, “Reform or Conformity?”.

3. Ashis Nandy, The Intimate Enemy, pp. 9-11,36,53-55, e At the Edge of Psychology, pp. 32-46. I reali, e in molti casi disastrosi, effetti del colonialismo sulla vita delle donne indiane, dei loro mezzi di sostentamento e del loro status sociale e legale stanno ricevendo un riconoscimento sempre maggiore; si veda Kumkum Sangari e Sudesh Vaid, curatori, Recasting Women.

4. Hans Küng, Christianity and the World Religions,pp. 414-15.

5. Herbert Guenther, in The Tantric View of Life,pp. 63-64, attribuisce l’errata interpretazione occidentale del tantra alla fissazione dell’Occidente per il controllo e il predominio. Egli critica la proiezione della “psicologia occidentale della dominazione” sul tantra ad opera di quegli autori che “non sono in grado di comprendere che il desiderio di realizzare l’Essere è diverso dalla brama di potere” (p. 64). Guenther fa anche notare come una donna vista come una schiava o un’oppressa, come un oggetto sottoposto a un rigoroso controllo, “non possa accordare quel riconoscimento di cui il padrone è in cerca, dal momento che solo un soggetto a pieno titolo potrebbe farlo” (p. 64). Tutto ciò mette in luce l’inadeguatezza psicologica di un sistema in cui le donne non sono che delle suppellettili da usare. Egli afferma che, piuttosto, “per poter trovare se stesso l’uomo necessita di un ‘altro’ che non sia un’astrazione intellettuale, ma parte di lui stesso, necessaria perché possa essere se stesso” (p. 67).

6. Trinh Minh-ha, in Woman, Native, Other,dichiara eloquentemente che il modo in cui la categoria mondiale primaria di “dominazione maschile universale” (abbracciata da femministe e non-femministe indifferentemente) banalizzi l’esperienza, la dignità, gli accordi sociali e la creatività culturale di molte donne del Terzo Mondo.

7. Shelly Errington in Jane Monnig Atkinson e Shelly Errington, curatori, Power and Difference,p. 7; la bibliografia di questo volume è un’eccellente guida alla letteratura sull’argomento.

8. La creazione del moderno sé mercificato occidentale è stata magistralmente sintetizzata da Frédérique Marglin, “Rationality, The Body, and the World”. Michel Foucault sostiene che i costrutti occidentali riguardanti la sessualità dipendono dalla logica merceologica e dal discorso sul potere; si veda History of Sexuality, vol. 1. Le implicazioni per la sessualità di una concezione delle relazioni umane come relazioni merceologiche sono analizzate in Robin Schott, Cognition and Eros,pp. x—xi, 167-97.

9. Gli indianisti hanno dimostrato l’inadeguatezza della logica merceologica nel dar conto della personalità individuale e delle relazioni interpersonali (incluso lo scambio di fluidi corporei, come nel tantra) in India. Si vedano McKim Marriott, “Hindu Transactions: Diversity without Dualism”; E. Valentine Daniel, Fluid Signs;e Gloria Raheja, Poison in the Gift.

10. Anche il Guhyasamāja-tantra, un mahāyoga-tantra, fa riferimento a questi argomenti e ricompensa uno studio approfondito su questi temi.

11. Si veda Herbert Guenther, The Tantric View of Life.